Il cibo nel tempo: come l’archeologia può raccontare la tradizione enogastronomica di un popolo e renderla identitaria.
Desta sempre un certo interesse una ricetta o un prodotto della tradizione ma… quanto potrebbe essere ancora più interessante sapere se questi hanno una storia che guarda molto indietro? È notizia di qualche settimana fa il risultato di uno studio (pubblicato su Nature) portato avanti dall’Università Federico II di Napoli, in collaborazione con ISA-CNR, Università “Aldo Moro” di Bari, ISPAAM-CNR e l’Università “Luigi Vanvitelli di Napoli, su un reperto proveniente dagli scavi di Pompei tra fine ‘700 e inizi ‘800 e conservato nel deposito del MANN (Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Il reperto era stato rinvenuto dal divulgatore scientifico Alberto Angela nel 2018 durante le riprese per un suo programma e il suo occhio da paleontologo ha notato la particolarità dell’oggetto: una bottiglia con del contenuto che nel tempo si era solidificato. L’ipotesi che dentro questa bottiglia di vetro ci potesse essere dell’olio di oliva è stata confermata dallo studio appena citato ed è stato ritenuto il più antico olio di oliva esistente al mondo fino ad ora.
Questi studi vengono portati avanti perché negli anni si è andata sviluppando una branca dell’archeologia che riesce a dare ancora più informazioni su ciò che siamo stati. Stiamo parlando dell’archeologia del cibo. Questa disciplina è un campo della ricerca che, in parallelo al progredire delle scienze applicate e tramite analisi archeometriche, è in grado di fornire informazioni utili per ricostruire l’alimentazione del passato, soprattutto in quei casi in cui non si è in possesso di fonti scritte del tempo. Per esempio:
- la biochimica può aiutare tramite alcune strumentazioni molto sensibili di condurre analisi del contenuto di recipienti in ceramica (bevande alcoliche, latticini e derivati, cibi a base di cereali);
- la biologia molecolare è in grado di indagare, attraverso il genoma, sull’origine soprattutto delle specie botaniche selvatiche e coltivate nel luogo ove sono stati ritrovati semi e/o frutti conservati e ricostruirne quindi l’habitat;
- le analisi chimico-fisiche (con isotopi) delle ossa di animali e dei resti umani permettono di risalire agli alimenti ingeriti, dando quindi informazioni utili riguardo l’alimentazione quotidiana della popolazione oggetto di ricerca.
Come nasce l’interesse per l’archeologia del cibo?
Il recente risalto da parte degli archeologi sul consumo dei cibi e delle bevande si pone all’interno di un discorso più ampio in cui sono coinvolte l’archeologia e l’antropologia. Grazie alla svolta delle scienze sia empiriche che applicate nella seconda metà dell’Ottocento, tutto ciò ha avuto significativi riflessi nella ricerca archeologica che iniziava a volgere lo sguardo verso queste discipline scientifiche come possibili nuovi strumenti di indagine in aiuto alle discipline storico-filologiche, per una ricostruzione più attendibile della storia delle comunità antropiche.
Per esempio, nell’Italia post-unitaria, diverse importanti figure di scienziati hanno prestato le proprie conoscenze all’archeologia, come il fisiologo Angelo Mosso (1864-1910), che fu uno dei primi a mettere in campo l’impiego di laboratori chimici per supportare le indagini archeologiche nell’Italia meridionale. Seguirono questo esempio di visione multidisciplinare anche altri studiosi europei come chimico francese Marcellin Berthelot (1827-1907), il quale è stato il primo ad analizzare del sedimento di vino in alcune brocchette fittili dalla Gallia romana con un procedimento analitico di distillazione e di estrazione dei solventi. Sempre lui ha avuto modo di identificare in contenitori di ceramica di epoca romana, tracce di grassi animali e di sostanze oleose.
Comunque l’ufficialità del lavoro congiunto tra archeologi e scienziati riguarda uno studio per la prima volta pubblicato su una rivista di archeologia dove l’analisi chimica del contenuto di un’anfora a staffa di fabbrica egeo-micenea dall’Egitto rivelò tracce di olio ricavate da palma da cocco (Cocos nucifera), smentendo la letteratura scientifica in ambito botanico che registrava l’introduzione di questa specie floreale nel Delta del Nilo in epoca mamelucca, quindi più avanti.
Il cibo è la nostra identità geo-antropologica
Il piatto di spaghetti al tempo del Sultano di Bahawalpur, la zuppa di farro preparata nell’accampamento dal centurione romano… i vari sistemi alimentari hanno scandito profondamente la storia dell’uomo, che nel corso del tempo ha risposto alle sollecitazioni ambientali non più solo con l’adattamento fisico, ma anche attraverso lo sviluppo culturale. Il cibo non è semplice soddisfacimento dei bisogni fisiologici, ma è anche cultura: definisce l’identità dei gruppi, in senso sia geografico che sociale, e segna il ritmo del vivere quotidiano e della ritualità (come i nostri nonni che vivevano in campagna).
Se oggi sappiamo come e cosa mangiavano i nostri antenati lo dobbiamo in primis alle testimonianze scritte che ci hanno lasciato in eredità i cronisti dell’epoca, alle scoperte degli archeologi e paleontologi e agli studi sempre più mirati sui reperti rinvenuti nei siti di scavo.
Per esempio, le fonti riguardanti l’alimentazione degli antichi Romani sono moltissime in quanto il territorio non comprendeva solo la penisola italica ma era esteso al continente europeo, dal bacino del Mediterraneo al Medio Oriente. Ci sono i testi di cronisti e scrittori dell’epoca e le raffigurazioni dei mosaici e degli affreschi. Ma molte informazioni emergono soprattutto grazie ai lavori di scavo e ricerca nei siti. I reperti e le testimonianze più numerose partono dall’epoca repubblicana per poi continuare con quella imperiale e tardoantica, fonti che raccontano con accuratezza delle risorse alimentari, delle preparazioni gastronomiche e della convivialità.
Ma sono emerse testimonianze rilevanti anche sul cibo degli italici partendo dalle origini dall’età del ferro, che evidenziano come per secoli le abitudini alimentare si sono fondate sulla pura necessità di procurarsi le materie prime per nutrirsi, che erano poche e scarse, determinando una civiltà della tavola piuttosto semplice e frugale che riguarda tutto su quella civiltà. Anzi, volendo possiamo anche andare molto più indietro parlando dei nostri antenati Sapiens. Nella lunga storia dell’evoluzione, l’uomo ha perfezionato nel tempo le proprie scelte alimentari, scegliendo prodotti ritenuti indispensabili per le proprie esigenze energetiche e fisiologiche, acquisendole in base alla disponibilità rispetto al proprio ecosistema finché la carenza delle stesse, spesso insieme a situazioni ambientali e climatiche sfavorevoli, ha portato alle migrazioni in nuovi posti alla ricerca di cibo.
Scoprire il cibo durante gli scavi archeologici
Come dicevamo, l’archeologia per l’identificazione dell’ambiente e dei reperti si aiuta innanzitutto con le fonti… ma le fonti scritte vanno spesso “prese con le pinze”, ovvero bisogna interpretarle bene e soprattutto interpretare chi scrive e perché lo scrive. Poi abbiamo quei casi in cui le fonti letterarie non sono state tramandate, come per quanto concerne l’alimentazione della civiltà etrusca, e quindi solo grazie agli scavi, ai reperti e agli affreschi murari delle necropoli è stato possibile ipotizzare quali cibi potessero essere presenti sulle tavole di oltre 2500 anni fa.
Infatti, reperti come stoviglie o altri utensili che vengono ritrovati sono importantissimi per ricostruire come gli antichi “apparecchiavano la tavola”, cucinavano e più in generale come movimentavano e conservavano le derrate alimentari, quindi le varie tipologie dei contenitori per il vino, l’olio, le granaglie e per il prezioso garum (l’insaporitore naturale per eccellenza importante come la salsa di soia per gli orientali).
Durante le indagini archeologiche, al bisogno, si può contare anche sulle competenze di specialisti come agli archeozoologi, che analizzano eventuali resti di animali permettono affermare quali specie venissero allevate e cacciate/comprate e dedurre l’eventuale trasformazione dei prodotti derivati (carni, latte, uova, formaggi, salse, etc.). Grazie invece agli archeobotanici, da prelievi di campioni di terreno dagli scavi, durante le analisi possono trovare esemplari organici come i pollini, i quali si conservano bene per diverso tempo. In questo modo è possibile capire in quel contesto abitativo o religioso la vegetazione presente ed eventuali piante coltivate per l’alimentazione umana (ed eventualmente animale). L’archeobotanica è una disciplina che permette di conoscere e approfondire la storia agro-forestale dei territori dove vengono eseguiti gli scavi, i cambiamenti che nel tempo il paesaggio ha subito e le abitudini alimentari dei popoli che hanno abitato quei territori.
Per esempio, sull’utilizzo dei cereali e delle farine per l’alimentazione abbiamo le prime testimonianze in Galilea (Israele), in un sito abitato da un gruppo di cacciatori-raccoglitori attivi nel Paleolitico Superiore, dove sono state trovate tracce di triturazione e di cottura di semi di cereali selvatici, impiegati a scopi alimentari. I semi, derivanti da varietà selvatiche di avena e orzo e altre specie, venivano raccolte non lontano dall’insediamento, pulite, private delle impurità e poi triturate su macine di pietra. Inoltre, la presenza di alcuni focolari nelle vicinanze delle macine fa dedurre che la farina venisse cotta forse sotto forma di una sorta di focacce, oppure si utilizzava il fuoco per arrostire i semi per poi conservarli. Questo dimostra come i cacciatori fossero in grado di ottenere cibi proteici anche attraverso l’elaborazione di farine ottenute dalla macinazione di tuberi e radici di erbe selvatiche o di cereali spontanei. Il passo successivo sarà la selezione dei semi di piante selvatiche per coltivarle.
Quindi passando per le coltivazioni di grano sulle sponde del Nilo, torniamo nella penisola italica, dove invece è il farro a farla da padrone e solo nel III secolo a.C. si inizia a fare il pane di frumento, come narrato da Plinio il Vecchio. Una notevole attività agricola è presente anche nelle terre attraversate dal fiume Po, come testimoniano la centuriazione nei territori dell’attuale Romagna, con i campi a “maglie” regolari, strade e canali per bonificare le coltivazioni e gli orti. A Ostia sono stati rinvenuti molti resti di mole per la macinazione di farina, fornendo utili informazioni sulla quantità di pane prodotto all’epoca, mentre su un affresco rinvenuto a Pompei viene mostrata una bottega del pane con il fornaio e suoi clienti.
Come si mangiava a Roma?
Ovviamente le maggiori informazioni sull’alimentazione degli antichi riguardano soprattutto gli abitanti dei territori di Roma e quindi sono quelle meglio conosciute e descritte, specialmente per la progressiva disparità tra il popolo e gli abbienti.
La dieta, in particolare della gente comune, era molto frugale e prevalentemente vegetariana: latte, formaggio, uova, il miele, ortaggi, legumi e frutta come zucche, fave e ceci, lattughe e ortiche, cereali, melagrane e fichi. Anche i più poveri avevano l’orto. Molta curiosità desta la dieta dei gladiatori che era costituita unicamente da cereali e legumi. Questi combattenti, infatti, venivano chiamati hordearii ovvero “uomini d’orzo” proprio per la loro dieta così esclusiva. Questo tipo di alimentazione permetteva l’accumulo di grasso sul corpo atto a proteggerli dalle ferite procuratesi durante i combattimenti.
Per gli altri alimenti fondamentali come l’olio di oliva e il vino, bisogna invece far riferimento alla conquista romana della Grecia e dei territori verso oriente lungo il Mar Mediterraneo. In ogni caso venivano utilizzati anche i grassi animali: non si conosceva il burro, ma solo lo strutto. Si mangiava poca carne e pesce soprattutto da animali allevati. Il vino era ad appannaggio delle classi agiate e comunque in origine veniva utilizzato solamente durante le funzioni sacre; non veniva consumato in purezza ma sempre miscelato normalmente con miele e/o acqua. Comunque uno degli alimenti tanto sacri quanto fondamentali nel sistema alimentare romano era il sale, soprattutto per le sue proprietà di conservazione dei cibi.
Durante la crisi del tardo Impero viene introdotto il rituale del convivio, dove si ostenta l’opulenza degli ospiti con trionfi di pietanze preparate in modo stravagante con cibi che spesso provenivano anche da fuori i confini dell’Impero. Ma il convivum contemplava soprattutto il concetto sacro di ospitalità, quindi con una parvenza sociale e cerimonioso.
In conclusione…
Siamo ciò che mangiamo, ma anche dove mangiamo, come mangiamo e con chi mangiamo (K. C. Twiss).
Fonti:
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